Pil fermo nel secondo trimestre, addio al +1,2% previsto per fine anno. Risultato: la manovra d’autunno sarà un bagno di sangue. A Padoan mancano 20-25 miliardi senza contare le promesse…
Matteo Renzi, come ci ha spiegato più volte, correttamente non si appassiona agli “zerovirgola” dei conti pubblici. Nonostante la virgola non ci sia più – visto che la crescita del Pil italiano tra aprile e giugno è stata solo “0” sui tre mesi precedenti – il premier continua a non appassionarsi e ieri è stato in silenzio. Forse è contento lo stesso: perché sia vero che #Italiariparte, giusto lo slogan preferito a Palazzo Chigi, serve anche che ogni tanto si fermi. E infatti s’è fermata: il dato preliminare sul Pil – diffuso ieri da Istat – segnala crescita nulla sul trimestre, è più basso di quello atteso dagli analisti (+0,2%) e indica una frenata considerevole del Prodotto interno lordo, che veniva da un +0,3% nel primo trimestre. La crescita cumulata per il 2016, infine, è pari allo 0,6%.
Cosa ci dice ancora Istat? Questo: quello zero “è la sintesi di un aumento del valore aggiunto nei comparti dell’agricoltura e dei servizi e di una diminuzione in quello dell’industria. Dal lato della domanda, vi è un lieve contributo negativo della componente nazionale (al lordo delle scorte), compensato da un apporto positivo della componente estera netta”. Tradotto: negative industria e consumi, non pervenuti gli investimenti, benino servizi ed esportazioni. Per avere un metro di paragone: nel secondo trimestre il Pil medio dell’Eurozona è aumentato dello 0,3%, quello del Regno Unito dello 0,6%, mentre ha segnato una variazione nulla in Francia (che però a maggio e giugno ha avuto le ondate di scioperi contro la loi travail). Questi dati, per chi ha la pazienza di seguire, raccontano due cose: 1) la manovra per il 2017 sarà un bagno di sangue; 2) le politiche di questo governo sono finora fallimentari.
Andiamo con ordine. La crescita acquisita finora rende assai difficile che a fine anno il Pil faccia segnare un +1,2% come scritto dal governo nelle sue previsioni (per farlo i prossimi due trimestri dovrebbero chiudersi entrambi a +0,7%): ad oggi quasi tutti gli analisti scommettono su un +0,8%finale, dando per scontato che il Prodotto nella seconda metà dell’anno torni a crescere, seppur poco. A Pier Carlo Padoan, dunque, mancano sei miliardi e mezzo di Pil reale, ma non solo: le previsioni dell’esecutivo, infatti, incorporano anche un Pil nominale (cioè al lordo dell’aumento dei prezzi, stimato all’1%) che cresce del 2,2%. Problema: l’inflazione acquisita per il 2016 a luglio era ancora -0,1%. Se va benino, il ministro dell’Economia si perderà per strada altri 15 miliardi di Pil. Nota bene: è sul Pil nominale che si calcolano deficit e debito. Risultato: ammesso che non occorra una manovra correttiva quest’anno, la legge di Stabilità per il 2017, da scrivere a ottobre, sarà un calvario. Il governo, in primo luogo, deve evitare aumenti automatici dell’Iva per 15,6 miliardi e garantire un aggiustamento dei conti pubblici tra lo 0,4 e lo 0,6% del Pil (6-10 miliardi).
Il conto, insomma, è di 20-25 miliardi da trovare via tagli di spesa o nuove tasse: difficile pensare a un’impennata del Pil tale da evitare manovre lacrime e sangue, tanto più che i conti del governo per il 2017 già inglobano un più che dignitoso +1,4% reale (+2,5% nominale). Problema: com’è evidente da Monti in poi, queste manovre sono depressive.
Questo, ovviamente, al netto delle promesse che Renzi ha fatto piovere sugli italiani in questi mesi: le pensioni; il contratto degli statali; il taglio dell’Irpef e dell’Ires; il rinnovo degli sgravi per le assunzioni e di quelli per gli investimenti; i fondi contro la povertà…
Quanto al passato, invece, conviene ricordare una cosa: il Pil italiano – a dispetto degli stentati “più zero virgola” passati, festeggiati dalla batteria di twittatori del Pd – è ancora circa 9 punti più giù del picco pre-crisi e non accenna a muoversi in maniera significativa nonostante variabili internazionali favorevoli (petrolio basso ed euro svalutato dalla Bce). Questo, per di più, dopo manovre fiscali non piccole e riforme che hanno spaccato in due il Paese. I consumi, dice ad esempio Istat, hanno dato “contributo negativo” all’aumento del Pil: gli 80 euro, che costano 10 miliardi l’anno, non servono alla crescita, eppure proprio per questo sono stati destinati in larga parte a chi ha un reddito attorno ai 20mila euro l’anno e negati agli “incapienti” (chi guadagna meno di 8mila euro). E ancora: il Jobs Act – rendendo più facili i licenziamenti (e i de-mansionamenti) – contribuisce alla caduta delle retribuzioni (consumi in calo), mentre la ventina di miliardi di sgravi fiscali destinati alle imprese che assumono a tempo indeterminato non hanno fatto aumentare l’occupazione stabile in modo significativo. Pure il bonus da due miliardi sugli investimenti valido per il 2016 non ha convinto le imprese a spendere.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 13/08/2016.
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