Merkel, Hollande e Juncker si vedono a Berlino mercoledì: “Il tema è l’agenda digitale”. Escluso il premier: iniziata la guerra del deficit.
La risposta poteva essere: “No”. Invece è stata: “Il problema è se la Germania accetterà o meno”. La domanda a Matteo Renzi l’aveva posta il Washington Post. Questa: l’Italia prenderà il posto della Gran Bretagna nell’Europa “dei grandi”? Ora, il fatto che il premier italiano non venga invitato a un incontro a Berlino a cui mercoledì parteciperanno – oltre alla cancelliera Angela Merkel – il presidente francese François Hollande, quello della Commissione Ue Jean Claude Juncker, più i principali industriali europei, è spiacevole, ma non drammatico: è solo il segnale che l’Italia non si siederà al tavolo di quelli che dettano le regole nell’Unione, tanto più dopo la plateale rottura avvenuta al vertice europeo di Bratislava su crescita e migranti.
Torniamo all’incontro di mercoledì. Dopo che la notizia dell’esclusione è uscita sulle agenzie, gli interessati hanno provato a sminuire la cosa: secondo il portavoce di Merkel, si tratta di un incontro ordinario in cui “si discuterà di innovazione e competitività in Europa e della sfida della digitalizzazione in tutti i settori dell’economia; non c’è alcun intento discriminatorio”; per Bruxelles è solo “un evento annuale e sarà dedicato esclusivamente allo sviluppo dell’agenda digitale: il presidente Juncker vi parteciperà per la terza volta”. Insomma, niente di che: si tratta solo di discutere coi principali big player mondiali come si svilupperà il continente nei prossimi anni.
E poi, se è vero che non c’è il governo, tra gli invitati qualche italiano c’è: John Elkann per Fca, Carlo Bozotti di StMicroelectronics, Rodolfo De Benedetti di Cir, Claudio Descalzi di Eni e Vittorio Colao, oggi a Vodafone. Magari potranno informare Renzi sull’andamento della discussione: tanto più che il governo ha inserito l’agenda digitale nel fantomatico piano “Casa Italia”, quello lanciato dopo il terremoto nel Centro Italia e per le cui spese il presidente del Consiglio chiede l’esclusione dal Patto di stabilità europeo (quello che ci impone il pareggio di bilancio).
E qui si incrocia il tema centrale dei dissidi tra Renzi e partner Ue in questa fase, che è poi il motivo per cui il segnale dell’esclusione dai vertici internazionali è più rilevante di quanto non appaia a prima vista.
Il governo si trova di fronte a un bivio: a stare alla “comunicazione sulla flessibilità” della Commissione europea del 2015 – che il premier cita sempre con trasporto – l’Italia ha esaurito i margini di flessibilità nel 2016. Così fosse però – giusto quanto concordato con Bruxelles solo a maggio – Renzi dovrebbe portare il deficit italiano dal 2,4% del Pil promesso per quest’anno all’1,8% nel 2017: una manovra di minori spese (tagli) e/o maggiori entrate (tasse) – nell’assenza anch’essa certa di una crescita sostenuta del Pil – pari a 10 miliardi. E questo solo per ridurre il disavanzo dello Stato, senza finanziare il resto: dalle spese incomprimibili alle molte promesse del governo in materia di pressione fiscale.
Il problema del premier è racchiuso in questa strettoia. Lo scarso peso politico in Europa lo mette nella brutta situazione di scegliere se rompere con gli ingombranti partner (Merkel in testa) sul rispetto dei vincoli di bilancio o inimicarsi gli elettori con la sua prima vera manovra di austerità. Da qui discende il dilemma che il governo dovrà risolvere nelle prossime stime sui conti pubblici: adeguarsi alle previsioni dei principali istituti internazionali (crescita molto bassa anche nel 2017) o continuare a vedere la vita in rosa?
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 24/09/2016.
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